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Le tre estati

 
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ape277 Rispondi citando



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Messaggi: 526
Luogo di residenza: Marter Valsugana (TN)

MessaggioInviato: Mar Set 22, 2009 10:50    Oggetto: Le tre estati
 
Il 30 giugno alle ore 18.45 iniziano idealmente, con una corsa dalla scuola che fra un quarto d'ora chiude all'agenzia che fra un quarto d'ora chiude, le mie vacanze.

Il progetto originale per l'estate 2009 aveva due punti fermi: doveva essere un viaggio unico e ininterrotto di due mesi, e doveva svolgersi sulle Alpi, dalle quali mancavo da un po' di anni. Si era poi precisato in una traversata delle Alpi Occidentali, da Nizza al Sempione, con la salita per la via di 30-35 cime - di queste avevo stilato anche tanto di lista. Le idee a giugno erano chiare, ma allo stesso tempo, parlando in giro, diventava altrettanto chiaro che erano irrealizzabili, dato che nei luoghi in questione c'era ancora troppa neve.

Allora mi ero rivolto alla Sardegna, dove volevo cominciare tutt'altro lavoro: quello di approfondire, in varie annate, il giro 2008 del Mediterraneo. Il 30 giugno era qualche giorno che facevo studi su quell'isola, ed ero pronto a partire. Verso sera mi ero imbattuto su un titolo del Corriere online: «Un mare di meduse sta per bagnare Liguria, Toscana e Sardegna».

Di qui la corsa in agenzia, per farmi dare gli opuscoli delle navi per la Grecia. Il giorno dopo mi imbarco da Venezia per il Peloponneso.

1. Peloponneso: tre cime e tre punte.

Il racconto fa riferimento all'album
http://picasaweb.google.com/albertopedrotti/Peloponneso

Il testo e le foto sono comunque abbastanza indipendenti; volendo si può lasciar perdere l'uno o le altre. (Volendo si può anche lasciar perdere tutto). La prima foto [001] mostra il percorso, 1803 km divisi in 18 tappe.

1.1. Dallo Helmos a Capo Akritas

Da Patrasso seguo la costa per una quarantina di km fino a Egio [002-003] da dove una salita di grande respiro - come tante altre qui in Acaia - punta verso l'interno. Nel paesino di Pirgaki trovo esposta una mappa dalla quale apprendo l'esistenza di una sterrata per la cima del Clokos, 1777 metri; ne approfitto subito. Per pendenze a tratti impossibili pervengo alla sommità, un tempo eremitaggio di San Leonzio, e ora occupata dalla Panagia Clokovitissa [004-005]. Ripresa la strada principale, che da ultimo attraversa con insistenti saliscendi una serie di paesini letteralmente appesi alle montagne, arrivo all'incrocio con la strada che concluse il viaggio dell'anno scorso [006]. Mentre scatto qualche foto vengo anzi attaccato da un cane che già mi attaccò allora; episodi come questo creano una forte impressione di complicità con il territorio, e fanno sentire quasi a casa [007-008].

Da Kalavrita [009] salgo al monte Helmos, non senza una diversione verso il paesino di Lousi, per andare in cerca di quella "panchina dell'Ammiraglio" ove sei anni fa dormii sotto le stelle, su consiglio di colui che avevo chiamato in quel modo in quanto ritornato al paese d'origine dopo trenta anni di comando nella marina canadese [010-011]. Purtroppo ritrovo solo la panchina, e niente Ammiraglio. Stavolta pernotto a 2000 metri sul monte Helmos, presso un orrendo casone costruito per gli sciatori [012-018]; fa molto freddo e in effetti non fa meraviglia che, quando all'alba raggiungo la cima, la trovo circondata da un discreto numero di chiazze di neve [019-026]. Dallo Ski Center arrischio una discesa verso est; la strada comincia un po' in sordina ma poi prosegue in ottime condizioni. La discesa panoramica a ripidi tornanti scavati nella roccia rossa [027-028] porta nell'alta valle del Krathis, che risalgo fino alla testata; sorge qui nascosto nella vegetazione il paesino di Zarouchla [029], luogo di villeggiatura nelle cui strade l'acqua zampilla in abbondanza. Un traverso sterrato di una ventina di km fra boschi rigogliosi supera un crinale a 1600 metri per poi scendere a Pheneos, dove il pranzo al ristorante mi serve anche per ripararmi dal temporale, che fra queste montagne arriva ogni giorno puntualissimo [030-033]. Visito il lago, posto ai piedi del monte Dourdouvana, 2105 m, compagno minore del monte Helmos [034-035].

Alto sopra il lago sta il monastero di San Giorgio Pheneos, con i suoi caratteristici ballatoi aggettanti in legno [036-045]. Cerco un modo per uscire dalla Piana di Pheneos in direzione Arcadia; la viabilità in questa zona è molto primitiva e l'unica soluzione indolore sembra essere la strada che fa il giro largo dalla parte di Likouria, in Acaia [046-049]. Entro sera sono a Vitina, a oltre 1000 metri sugli altipiani centrali, sotto il Menalo [050-051].

Il mattino dopo, in un'aria frizzante piú da traversata alpina che da Mediterraneo [052-053], raggiungo Dimitsana, paese posto a cavallo di una dorsale a guardia della valle del Lousios [054-059]. Siamo oltre i 1200 metri e tutto il panorama sembra digradare verso la Valle dell'Alfeo, oltre la quale già in lontananza si profila il Taigeto. La strada però va controcorrente e si inerpica ancora piú in alto [060-061], in cerca del paesino di Stemnitsa, celato dietro un massiccio avancorpo roccioso [062-063]. Questi luoghi sono tutti carichi di storia; qui ad esempio la graziosissima chiesa della Madonna del Bafero, del 1185, ha un pozzo dove durante la rivoluzione del 1821 vennero nascosti i libri della locale Scuola, per metterli al sicuro dai Turchi. Solo che furono poi dimenticati nel pozzo e andarono distrutti per l'umidità.

Con percorso incredibilmente panoramico (un unico gomito alto sulla piana di Megalopoli) si giunge a Elleniko; qui una stradina tortuosa permette di addentrarsi nella gola del Lousios, dove si trovano le rovine di Gortys [064-065]. È questo il punto di partenza di una rete di sentieri che risale la gola del Lousios toccandone i vari monasteri [066-068]. Io mi accontento di arrivare al primo, quello di Agios Ioannis Prodromos, appeso sotto una parete rocciosa, sopra la quale sta invece la chiesa della Trasfigurazione, che sembra quasi in atto di tuffarsi da uno spuntone di roccia. L'inserto escursionistico si conclude con un bagno nel fiume [069-070], prima di risalire alla strada principale e scendere al ponte [071] sull'Alfeo - proprio quello che inseguí Aretusa fino a Ortigia. Segue lunga e tortuosa salita per Andritsena, celebrata località turistica, ma a mio avviso meno interessante che Dimitsana e Stemnitsa. Da Andritsena si sale ancora e, con percorso magnifico presso il crinale delle colline, si raggiunge il tempio di Bassae.

Posto a 1141 metri al cospetto di uno scenario sconfinato, il tempio di Apollo Epicureo ("che allontana le preoccupazioni"), è una delle opere dell'antichità meglio conservate [072-075]. Proprio per questo è ora protetto, oltre che dall'UNESCO, da un pesante telone che lo ripara dall'azione erosiva di pioggia, neve e vento. Al visitatore l'esercizio mentale di togliere il telone, per immaginare quello che sarebbe un perfetto esempio di integrazione fra arte e ambiente, e ricostruire la rispondenza fra il colore delle colonne e quello delle spoglie colline circostanti. A fare tale esercizio, in verità, siamo in pochissimi, dato che quasi nessuno ha la pazienza di inerpicarsi fin quassú, per una strada che anche dalla parte del mare colleziona piú di 40 km di curve e controcurve, benché la distanza in linea d'aria sia meno della metà.

In mezzo alle colonne serali di vapore che salgono dallo Ionio [076] scendo ai paesini in vista del mare, in cerca di una cena. La trovo a Perivolia, un pugno di case abitate da quasi solo anziani, dove un'intraprendente rumena ha trovato di che vivere aprendo un ristorantino minimale [077-078].

Il giorno dopo raggiungo le rovine di Figalia, dove le ragnatele padrone dei sentieri quantificano la frequentazione del luogo. Un tempo Figalia era una città potente, e furono i suoi abitanti a erigere il tempio di Bassae per pregare la divinità che mettesse fine a una pestilenza. Avuta la grazia, si godettero anche i proventi del turismo che il tempio aveva generato [079-084]. La latitanza dei turisti odierni si capisce invece nel seguito, allorché si vede di cosa sia capace la strada che si getta a capofitto nella gola del Nora [085] per riemergerne con una rampa terrificante che la solleva piú in alto di prima. Con un'altra trentina di km di colline arrivo finalmente al mare di Kiparissia, ed entro sera sono alle porte di Pylos [086-096].

Un tempo la città di Nestore, oggi Pylos vive della bellezza della sua costa [097-100] - bellezza che io posso godere solo a metà in quanto angustiato da un guasto meccanico, la rottura di un pedale. Il meglio che riesco a trovare, in un'officina di automobili, è una coppia di pedali che insieme costano 8.50 euro... Non a caso il sostituto di quello rotto defunge a sua volta ancor prima del termine della salita di prova; un ulteriore sostituto sembra funzionare meglio ma per prudenza procedo come se mi trovassi sulle uova. A Methoni visito il castello veneziano, colonizzato da una prepotente fioritura [101-109]. Procedo verso sud [110]. Alla spiaggia di Faneromeni [111] finisce l'asfalto e comincia la sterrata che conduce verso Akrotirio Akritas, la piú occidentale delle tre punte del Peloponneso.

La strada si esaurisce a una spiaggetta solitaria, base ideale per raggiungere il capo a nuoto [112-117]. In un luogo come questo non serve cercare il costume, o nascondere il portafoglio, o legare la bici, tanto è evidente che qui non arriverà mai nessuno.

Si riesce anche a curare la tempistica: congegnata in modo da assistere su un lato al tramonto del sole e sull'altro al sorgere della luna piena, che mi accompagnerà tutta la notte sulla spiaggia di Faneromeni [118-129].

1.2. Mani e Capo Tenaro

Parto presto [130-139] nell'intento di arrivare a Kalamata [140-144] in tempo per cercare un paio di pedali piú affidabili di quelli da 8.50 euro. In effetti arriverò alla cifra di 27 euro. Nel pomeriggio posso cosí dirigere con l'animo piú sollevato verso la penisola del Mani [145-146]. Da Kalives mi addentro a piedi nella gola del Viros, trovandovi solo monasteri abbandonati, prima di scendere a Kardamyli, dove dormo ancora una volta in spiaggia [147-149].

Il bagno del mattino mi porta a fare il giro dell'isoletta di Meropi. Tornato al porticciolo vi trovo un capannello di francesi che vogliono conoscere l'eroe che ha nuotato in un canale largo a loro detta 2000 metri; fatico a convincerli che secondo me i metri erano 400, ma poi troviamo una mappa che mi dà ragione: fatto da segnare sul calendario, perché in genere a prendere cantonate tipo quella dei francesi sono proprio io. Kardamyli sarebbe un bellissimo luogo di vacanza, pulito e tranquillo, e la strada mano a mano che si scende diventa sempre piú bella [150-156]. Vi sono dei tratti in cui splendide chiese bizantine si accalcano a poche decine di metri l'una dall'altra [157-164]. Poi cominciano gradualmente ad apparire le case-torri tipiche del Mani. A Itylo, nei pressi di una provvidenziale fontana alla quale ingurgito due litri d'acqua seduta stante [165-167], vengo avvicinato da due motociclisti bolognesi che mi informano sulla temperatura segnata dal termometro di bordo: 42 gradi, e tirano fuori un foglietto dove sta scritto il nome di un paese che non ci si può perdere assolutamente: Ano Vathia. Chiedo cosa ci sia di speciale. Mi spiegano che vi è stato girato un film americano con una grandissima gnocca: non ricordano molto altro, perché appunto il tutto era oscurato dalle virtú della detta gnocca.

Superate le trasparenze della baia di Limeni [168-171] salgo ad Areopoli, nelle cui stradine l'afa ha fatto il vuoto [172]. Cominciano qui gli spettacolari ultimi 40 km della costa occidentale del Mani: un lungo percorso a mezza costa fra ulivi e case-torri, sopra il riflesso del Mediterraneo [173-180]. È quasi il tramonto quando supero il porto di Gerolimenas, protetto da una penisola fatta a tavolato che si protende dal Mani come una possente zampa sul mare [181]. Dopo gli ultimi saliscendi [182-183] arrivo ai piedi della rampa di Ano Vathia. Il paese non è che un unico cordone di case-torri posto sul crinale di una collina. Mi fermo lungamente a farmi largo fra le piante di fico per raggiungere ed esplorare anche le torri piú diroccate [184-195]. È notte quando riprendo la strada. Questa attraversa una zona sconvolta di grandi massi prima di scendere in picchiata a un punto dove la costa, senza del tutto perdere in altezza, si fa quasi filiforme, prima di aprirsi di nuovo in quella grande zampa protesa verso sul Mediterraneo che è la penisola estrema di Capo Tenaro [196-199].

Dormo in spiaggia a Porto Kagio [200-201], e solo l'indomani completo la discesa verso Kokkinogia [202-213], il pugno di case dove si interrompe la strada e inizia, in corrispondenza dei resti di una villa romana [214-215], il sentiero per il faro di Capo Tenaro [216] che, noto anche come Capo Matapan, è una delle tre punte estreme dell'Europa, insieme a Gibilterra e alla punta della Calabria.

Il mattino passa con un lungo bagno [217] seguito dalla salita ai terrazzamenti abbandonati di Mianes, l'angolo piú panoramico di questo estremo promontorio [218-227]. Nel pomeriggio, invece, esploro la costa orientale del Mani, che la quantità di capre distese lungo la strada annuncia fin da subito meno turistica della corrispettiva occidentale. Il luogo che si fa notare è Lagia, alto piú di 300 metri; qui fra le case torri si annida un'incredibile osteria tutta affrescata dall'estroso figlio dell'anziano proprietario [228-237]. A metà pomeriggio si alza un vento a raffiche che costringe anche i camper, e a maggior ragione la mia bici, a un forzato stop. Mi consolo con un'insalata greca che la generosa ostessa mi affoga in diverse dita di olio d'oliva - qui piú abbondante dell'acqua potabile [238-239].

Calmate un poco le raffiche, decido di traversare la spina dorsale della penisola per fare il bis degli spettacolari 40 km finali del Mani Occidentale. In quest'atmosfera magicamente sospesa mi concentro sul puro andare: nessuna sosta, praticamente nessuna foto [240]. È notte quanto transito per Vathia [241-242]. Stavolta mi sistemo proprio al termine della strada, nella caletta sotto il sacello che era sede dell'Oracolo Funebre di Poseidone Tenaro [243-244], posto a custodia della porta degli Inferi.

Il luogo ha un fascino magnetico. Pochi hanno avuto fortuna da queste parti. Passò di qui Orfeo, che arrivò al Tenaro dopo essersi trascinato in lungo e in largo per la Grecia, quasi ubriacato dal dolore. E si sa che tornò su dagli Inferi parecchio scornato. Maggior fortuna ebbe Ercole, che riuscí nel suo intento di catturare Cerbero. Ma, si sa, quando si leggono le imprese di questo eroe ci si chiede sempre come sarebbero andate le cose, se solo all'epoca ci fosse stato un antidoping adeguato.

Passarono di qui anche Teseo con l'inseparabile amico Piritoo. I due avevano in mente un progetto: rapire Persefone, moglie del re degli Inferi (!). Una di quelle bravate per cui oggi, al limite, si patteggerebbe; a scuola, poi, non ci si prenderebbe nemmeno l'otto in condotta. Ma all'epoca, quando non era ancora tutto buttato in farsa, certe trovate si pagavano care, e cosí finí che Piritoo rimase giú, prigioniero per sempre: dal che l'ammonimento di Orazio «nec Lethaea valet Theseus abrumpere caro vincula Pirithoo», con il quale egli suggella una delle sue poesie piú memorabili.

Ancor prima dell'alba lascio la mia postazione sotto l'Oracolo con l'intenzione di tornare a Capo Tenaro, stavolta interamente a nuoto. La faccenda impiega gran parte della mattinata. L'acqua da queste parti è parecchio fredda e, per scongiurare il rischio di ipotermia, sosto lungamente sugli scogli sotto il faro, prontamente intiepiditi dal sole mattutino. Subentra un piacevole torpore e, ogni volta che nel dormiveglia apro gli occhi, non manca mai la sagoma di una nave al largo, a tenermi compagnia in quelli che sono senza dubbio, di tutta l'estate, i momenti dei quali piú volentieri chiederei il bis [245-249].

1.3. Taigeto

Al pomeriggio percorro per la terza volta i famosi 40 km verso Areopoli. Finalmente riesco a fotografare Ano Vathia in piena luce [250-251]. Stavolta mi libero dall'attrazione magnetica del Tenaro e punto verso nord [252]. Passo Gythio [253] ed entro sera imposto la complessa salita al Taigeto: l'avvicinamento per le colline è molto lungo [253-257], ma per ora di cena mi trovo a Kastania, sulle pendici della cresta principale. Nella graziosa piazzetta del paese [258-260], con due ristorantini non si capisce quanto in concorrenza, vengo accolto con calore; qui la popolazione è praticamente greco-americana, poiché gran parte del paese è emigrato a New York, e torna solo nei mesi estivi. Vi è dunque molta piú possibilità di comunicare che nel paese greco medio. Per la notte salgo a Panagia Giatrissa, la cui silhouette si staglia alta sulla cresta spartiacque [261-262].

Il giorno dopo risalgo la sterrata che costeggia il crinale; sospesa fra i golfi Messenico e Laconico è certo da annoverare nella top ten del Mediterraneo [263-270]. Salendo il profumo dei pini diventa via via piú inebriante. Giro lungamente a vuoto nella foresta Vassiliki, alla testata della gola del Viros (quella che saliva da Kardamyli), ma alla fine riesco a rinvenire alla strada per Agios Dimitrios, la chiesetta non lontano dalla quale si lascia la bici [271-272]. Lungo e articolato percorso di cresta fino alla cima di Profitis Ilias, 2407 metri [273-279].

Chi volesse raggiungere la sommità in maniera piú agevole dovrebbe salire per la «via normale» da Paleopanagia, come descritto in questo divertente documento che io avevo con me:
http://www.gruppovulkan.com/file_html/attivita_2009/grecia/Spedizione%20GRECIA-Taigeto%20rev%2001.htm
In rete si trova anche notizia di come è andata a finire.

Recupero la bici e, prima di scendere alla Giatrissa, vado a dare un'occhiata alla sterrata che scenderebbe a Exochori, sul versante Kardamyli. La strada raggiunge il suo punto piú alto in corrispondenza di una vedetta anti-incendio posta su un esposto costone, dal quale lo sguardo spazia incredibilmente da Capo Tenaro a Capo Akritas, i due estremi che rinserrano il Golfo Messenico [280-289].

In discesa foro ma quando mi fermo per la riparazione mi trovo inseguito da cani. Mi trovo cosí a scendere a rotta di collo con la pompa in una mano e i sassi da tirare ai cani nell'altra. Quando la situazione si acquieta, attendo alla riparazione [290-293]. Purtroppo per un'imprudente manovra rompo il colletto della pompa quando la camera d'aria è gonfia solo per un terzo. La situazione non è allegra. Devo scendere a Kastania in piedi sui pedali, caricando tutto il peso sulle braccia. Quando entro in paese sono rigido come uno stoccafisso. Per fortuna qualcuno dei newyorkesi mi si fa incontro. Pochi minuti dopo compare nella piazzetta una pompa, anche se non è molto chiaro come la si usi. Con il bastoncino dei souvlaki in una mano e la pompa nell'altra tento di capirne qualcosa. Alla fine riesco a intuire come si userebbe l'attrezzo con una valvola Schrader. Solo che le mie valvole sono Presta. Mi viene però in mente di un passaggio al Decathlon nel quale stivai una camera d'aria con una Schrader. Potrebbe essere ancora nelle borse; frugando trovo che è proprio cosí. È un doppio miracolo: non solo mi eviterò di scendere a Gythio a guisa di stoccafisso, ma anche si è dimostrato che perfino il Decathlon serve a qualcosa. Nel frattempo mi rendo conto che la piazzetta di Kastania si è appassionata alle mie traversie; l'ostessa mi offre un pezzo del dolce che le è riuscito meglio, un altro si offre di riconsegnare la pompa, un altro ancora viene a chiedere il permesso di offrirmi una birra [294-295].

1.4. Capo Maleas

A Gythio compro una pompetta che mi restituisce alla tranquillità. Costeggio il Golfo Laconico in mezzo agli aranceti [296-298]. Strada facendo l'arte del furto si affina da sé: al termine della traversata sono in grado di staccare, sbucciare e mangiare frutti (della varietà estiva) senza minimamente compromettere la pedalata. La sera arrivo sulla spiaggia di Marathias, dove c'è la possibilità di raggiungere a nuoto Capo Koulendi, sormontato da un'antica torre [299-302].

L'indomani godo l'incanto della sterrata che gira a mezzacosta sopra il capo, in vista dell'isola di Elafonissi. Passato un costone appare una discarica dalla quale il vento ha strappato le borse di plastica sollevandole fin oltre l'alta recinzione, con il risultato che queste hanno colonizzato la collina, impigliandosi in tutti gli arbusti, dai quali ora alcuni operai tentano di toglierle [303-306]. Arrivo a Neapoli, capolinea del turismo di massa, dato che ben pochi si cimentano con la porzione terminale della penisola di Maleas. Sopra Neapoli sta la luminosa Lachio [307]; salendo ulteriormente si raggiunge un valico oltre i 500 metri che mette in comunicazione con l'opposta costa. Durante la discesa si superano varie chiesette tra cui quella suggestiva della Metamorfosi, e la vista si apre su un'ampia baia dove biancheggia la chiesetta di Agios Pavlos; piú lontano la stretta lista di terra di Capo Kamili con la chiesa di Agios Georgios. Mi lascio tentare dall'invito di una sterrata a fondo rosso e raggiungo la prima baia [308-312]. Il mare grosso fa naufragare a metà il tentativo di raggiungere a nuoto Capo Kamili. Questi tentativi generosi ma scomposti nascono dal mancato studio della carta; nel seguito mi renderò conto che esiste un comodo anello che, passando dai due paesi di Ano e Kato Kastania anziché da Lachio, permette di raggiungere anche il capo. Dettagli che ovviamente non mi turbano piú di tanto; è infatti bellissimo ripercorrere la strada nel tardo pomeriggio [313-316] per trovarsi, a sera, a quello che è il capolinea dell'asfalto sull'altra costa, ovvero il porticciolo di Profitis Ilias [317-319]. Dopo cena seguo con la frontale una delle due sterrate che proseguono verso la chiesetta di Agia Marina, dove pernotto. L'indomani completo la sterrata, la quale si esaurisce all'attacco del sentiero che, in parte intagliato nella roccia, conduce al monastero di Agia Irini [320-325]. Visibili i resti della teleferica che permetteva di issare le provviste dal sottostante approdo. Siamo quasi al capolinea: mancano pochi minuti di cammino all'estrema punta dove, fra gli scogli ruvidi, sta appollaiata la chiesetta di San Giorgio. Basta spostare il fil di ferro che tiene accostata la porta per mettere in contatto due mondi apparentemente incomunicabili; non si capisce bene, tuttavia, se vi sia contrasto o armonia fra la vastità dell'orizzonte e il raccoglimento dell'interno, gremito di affreschi e di icone [326-332].

La traccia che conduce a Capo Maleas non è isolata, ma fa parte di una rete sentieristica che è forse la piú sviluppata del Peloponneso. Unica pecca, la mancanza di un collegamento fra il capo vero e proprio e il faro, posto un km piú a nord: troppo scoscesa, in questo tratto, la costa. Tento di aggirare il problema a nuoto, ma i marosi mi ricacciano indietro. Detto per inciso: molte calette di questa terza penisola sono afflitte da accumuli di plasticaccia, probabilmente da imputare alle innumerevoli navi che solcano il vicino Canale di Citera. Sono le stesse che doppiano Capo Matapan che invece è pulitissimo, ma qui evidentemente le correnti sono diverse. Tentata anche la via di terra, ed essendo anche qui stato ricacciato da passaggi troppo difficili, lascio perdere il faro e comincio il lungo ritorno [333-338]. Oltre Neapoli la strada per la costa orientale esige il superamento di un'altra montagna, per cui solo a tarda sera mi accampo lungo l'Egeo [339-344].

1.5. La costa est e il Cillene.

Monemvasia giace appollaiata sotto la rupe che la protegge (somiglia un poco, in questo, alla nostra Cefalú) e ne decreta lo status di città "a un solo ingresso" - questo il significato del nome, in seguito semplificato dai Veneziani in «Malvasia», versione nella quale ha fatto, anche se per altri motivi, il giro del mondo. La visita comprende la parte bassa e l'acropoli turco-bizantina, con una basilica di Santa Sofia, un hammam ossia bagno turco, e le grandi cisterne dell'acqua [345-360].

Nel pomeriggio trovo invece, in una baia qualche km a nord, quello che per un bagno è il massimo, ossia un'isoletta da circumnavigare [361-363]. Poco oltre ecco Limina Geraka, incantevole porto su un braccio di mare poco profondo e quasi dimenticato dalle onde. Un luogo dove comanda la luce, e non vi è cittadinanza per lo scorrere del tempo [364-366]. Mi faccio servire una cena anticipata alla trattoria "To Remetzo", gestita da una danese di mezza età che si è giustamente stufata dei cieli del nord.

Quello che segue è l'angolo piú sperduto del Peloponneso, dove è un'avventura anche procurarsi una bottiglia d'acqua [367-371]. Al calare della notte devio verso il monastero di Evangelistrias: un convento di suore isolato nella macchia, presso un promontorio alto sul mare [372-375]. Il giorno dopo proseguo [376-378] e raggiungo Charakas, che mi è stato presentato come il capoluogo della regione: in effetti, vi si può comprare anche una bottiglia d'acqua. Terminate le ultime case di Charakas appare un piccolo prodigio: la strada supera una piccola strettoia e improvvisamente la vista si apre sul mare. Ci si trova a 600 metri appesi a una cornice che ricorda qualche tratto in Verdon [379-381]; si scende al golfo di Kiparissi, Paralia e Mitropouli dove come per incanto ricompaiono i turisti [382]; da che parte saranno venuti? Qui la carta geografica tenta il viandante con una sterrata che va ad esaurirsi, dopo 12 km, a Kapsala. La seguo pregustando un porticciolo per pochi intimi, con spiagge e ristorantini, magari di quelli che si raggiungono piú che altro in barca. Un'altra possibilità è che, essendo la mia carta datata, oggi di lí sia stato realizzato il collegamento con le località costiere piú a nord. Kapsala non è invece nulla di tutto ciò che avevo immaginato [383-386]. In questo antico insediamento di pastori a mezza montagna trovo un contatore della corrente fermo ed incrostato, un pozzo e, poco lontano, un nugolo di vespe. Misteriosamente la strada però prosegue; anzi, a tratti è frutto di un cospicuo sventramento che sembra dimostrare intenzioni serie. In effetti, essa scende in direzione della Baia di Fokianos, lasciandola però solo desiderare, dato che si arresta davanti a uno sbarramento di sassi [387-391]. Nella macchia è impensabile proseguire a piedi anche per un solo metro. Per dare un senso a questa esplorazione pioneristica, spingo la bici per oliveti terrazzati fino alla spiaggetta sottostante, dove calcolo di essermi meritato un bagno [392-394]. Tutto fa presagire che un giorno i circa 4 km di collegamento mancanti per Fokianos verranno realizzati, ma probabilmente finora i due nomoi di Laconia e di Arcadia che qui hanno il loro confine non sono riusciti a mettersi d'accordo.

Intanto il prezzo che pago per questi 4 km mancanti è un aggiramento di 60 km, se di prezzo si può parlare a proposito di un percorso cosí piacevole [395-404]. Quando raggiungo Leonidio [405] oramai è tutto finito, poiché quello che segue è una litoranea interessante quanto si vuole [406-407], ma comunque standard, con tanto di traffico, ombrelloni e speculazione edilizia.

L'indomani arrivo a Micene. Qui vale la pena di venire anche solo per l'emozione di passare sotto la Porta dei Leoni, con il suo fregio triangolare che è il piú antico esempio di arte figurativa in Europa, e che in 3300 anni non ha mai subito l'onta di finire sottoterra. Per questa porta entrò Agamennone, reduce dalla guerra di Troia. Non avrebbe mai potuto immaginare il destino che lo attendeva. La moglie Clitennestra, infatti, ormai persa per l'amante Egisto, lo attendeva non per festeggiarlo, bensí per farlo fuori. A tal fine aveva predisposto un ingegnoso sistema telegrafico: una catena di sette fuochi avrebbe trasmesso di cima in cima, a cavallo dell'Egeo, l'eventuale notizia della caduta di Troia. Cosí Clitennestra si era organizzata bene, e Agamennone fu sgozzato già mentre usciva dalla doccia.

Tanto tempo dopo davanti a quella medesima porta arrivano due viandanti. In realtà sono Oreste e il suo inseparabile amico Pilade. Caso vuole che dietro la porta ci sia proprio Elettra, sorella di Oreste e figlia di Agamennone e Clitennestra. La mente di Elettra è sconvolta a forza di rimuginare sul sacrificio della sorella Ifigenia. La vampa della sua pazzia si riattizza ogni volta che ella solleva lo sguardo e vede, in cima alla collina, le finestre illuminate del palazzo nel quale sa che la madre Clitennestra sta consumando i propri adulteri con l'amante Egisto. «Anche i cani del palazzo mi riconoscono, e tu non mi riconosci!» si lamenta il viandante. Oreste ha in mente un progetto: vendicare la morte del padre. E non perde tempo. Di lí a poco un urlo disumano che proviene dal palazzo squarcia il buio: è Clitennestra che è stata sgozzata. Passano pochi istanti, ed ecco un altro grido: anche Egisto è stato sgozzato. Oreste fugge dalla Postierla, la porticina che c'è dietro [potrei spiegare il modo di sfruttarla per entrare a Micene senza biglietto, ma questo farebbe miseramente cadere il tono narrativo], andando incontro al suo destino terribile. Avrebbe vagato senza posa per tutta la Grecia, tormentato dalle Furie e dalle Eumenidi. Il destino, qui a Micene, è sempre stato pesante come un macigno: come quei sassoni immani che formano le Mura Ciclopiche - basta vederle per capire come, per edificarle, Perseo avesse dovuto chiedere aiuto proprio ai Ciclopi. Micene è un posto davvero speciale per gli appassionati di quelle storie che, come diceva uno che adesso non ricordo chi fosse, «non accaddero mai, perché sono sempre».

Passata Micene, mi rimane un'ultima tappa, anche se la piú avventurosa: la salita al Cillene. Dai vigneti di Nemea imbocco una strada contortissima che dopo varie peripezie raggiunge l'altopiano di Stimfalia. A Kaliani sono finalmente alle pendici della montagna. Andando a naso imbocco una ripida salita. Con sorpresa verso i mille metri trovo un paesino tutt'altro che abbandonato, Bouzi. L'improvviso attacco dello sterrato è di quelli dove è richiesta molta autostima ciclistica. Dopo 4 km si arriva a un bivio presso un grande pino isolato: prendere a sinistra. Si sale traversando, ma le pendenze sono durissime. Si raggiunge una selletta, dove ci si rende conto di non essere ancora sulla montagna giusta. Di qui partono tre strade: una sale a destra, una scende verso dei ripari di pastori, un'altra sale a tornanti verso una montagna sulla sinistra. Neanche quella è la montagna giusta, ma sembra portarvici. Si arriva a un'altra selletta, credo sui 1900 metri, alla quale io bivacco. Si scende a un'ulteriore sella dove finalmente si è ai piedi dell'immensa anticima sud della montagna. Qui si deve prendere a destra; a sinistra si scenderebbe a Goura e Pheneos. Si traversa in saliscendi, comincia a radunarsi attorno alla strada un bel bosco di pini. L'ambiente mi ricorda quello che trovai l'anno scorso sull'Akdag in Turchia. Quando il bosco è discretamente folto si trova un bivio. Prendere la strada che si inerpica a sinistra. Dopo poco si trova un'insegna: Pouliou Ohtos, 1800 m. È segnato un rifugio a un'ora. In realtà tutto ciò che trovo è una capanna dove un'anziana mi rabbonisce tre cani aggressivi - ma ero preparato perché qui durante la notte avevo notato una luce. Il rifugio è presumibilmente lo stabile in abbandono poco sopra. La strada sale, instancabile. A un certo punto lambisce un canalone appena accennato: passa qui il sentiero segnato per la cima. Io però seguo la sterrata in traverso verso sinistra. Seguono nuovi tornanti su pendio aperto. A 2230 metri giudico la traccia impercorribile, ma siamo ormai a 20 minuti di cammino dalla cima, 2376 metri. È una di quelle montagne che non hanno nulla con cui incantare, se non la loro grandiosità.

Ridiscendo, la donna mi rabbonisce nuovamente i cani; al bivio sotto l'insegna proseguo il traverso interrotto per arrivare in pochi km a Oropedio, ossia "piede del monte": un'ampia piana dalla quale parte il sentiero che avevo intersecato. Sul margine opposto della spianata sorge, deserto, l'edificio del Centro Atletico Ziria (Ziria è l'altro nome del Cillene).

Non lontano da Oropedio vi è la grotta dove nacque Hermes, divinità eclettica che anticipa molte caratteristiche del moderno uomo di successo. Fra le varie cariche che deteneva, vi era quella di Dio dei ladri e dei commercianti, con particolare delega alle astuzie insite nel furto e nel commercio. Quand'era ancora in fasce, infatti, era riuscito con l'astuzia a sottrarre una mandria di vacche ad Apollo. Questi, quando riuscí a risalire all'autore del furto, si infurió alquanto, ma l'altro nel frattempo, mettendo assieme un guscio di tartaruga e delle corde che aveva ricavato dalle intestina delle stesse vacche rubate, aveva inventato la lira, con la quale intonò un canto in lode di Apollo tanto melodioso che l'altro, incantato, lo perdonò e lasciò al giovane la mandria in cambio della lira. Come si vede, Hermes si era guadagnato i suoi titoli sul campo: possiamo dunque definirlo un self-made-man, oltre che un grande imbonitore. Si dice che fosse anche molto pronto a vantarsi presso le donne delle proprie imprese, piú o meno oneste. Dato il suo stile di vita, però, Hermes di una cosa aveva assolutamente bisogno: un dominio completo sull'informazione. Anche qui risolse brillantemente la questione, guadagnandosi la carica di messaggero degli Dei: cosicché egli stesso era l'informazione.

Al Centro Atletico sale l'asfalto dal Golfo di Corinto; preso da questo lato, quindi, il Cillene sarebbe molto semplice. Preso dal lato Stimfalia, come visto, è invece abbastanza complesso sia dal punto di vista dell'orientamento che da quello dell'impegno. Scendo rapidamente a Trikala. Qui però affiora la mia tendenza a non tirare i remi in barca nemmeno all'ultimo giorno: mi lascio tentare da una salita sul versante nord del Cillene che, in ambiente invero magnifico, mi porta a un valico dal quale scendo a Karia. Qui trovo un ristorante talmente bello che lo eleggo a luogo della mangiata di fine viaggio, il luogo dei tradizionali ristorantini di pesce di Patrasso. Lo spettacolo non è ancora finito. La discesa su Derveni non ha nulla da invidiare a quella straordinaria su Diakofto qualche decina di km piú a ovest. A metà si trova la risalita di Erostina, dove una parete rocciosa cela la Panagia Katafigiotissa, alla quale si scendere per cento metri verticali di gradini. Il nome significa "Madonna degli scalini", e la chiesetta è stata costruita dove c'era un rifugio contro i turchi. Seguono nuovi arditi tornanti. A Rozena la strada diventa invece un rettilineo che sembra gettarsi in mare [443]. E a me sembra che il mare mi stia aspettando, con ben due navi che partono stasera da Patrasso per Venezia [444-454].

Nel tratto finale lungo costa mi rendo conto che avevo quasi disimparato a pedalare in piano. In effetti l'orografia dell'isola di Pelope è sconvolta non meno della sua storia: su una superficie inferiore a quella delle maggiori regioni italiane sta stipato un coacervo inimmaginabile di montagne e di vallate di cui io, con i miei 1800 km, non ho esplorato che una piccola parte. Tuttavia è tempo di rientrare, per i motivi che spiegherò fra poco. La rassegna fotografica si chiude con un omaggio a ciascuna delle sette province del Peloponneso [455-461] (in senso antiorario: Acaia, Elide, Messenia, Laconia, Arcadia, Argolide, Corinzia), e con un'alba all'estremità sud piú un tramonto all'estremità nord [462-463].
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MessaggioInviato: Mar Set 22, 2009 10:51    Oggetto:
 
2. Peio: i tre Orsi.

Dal Peloponneso devo rientrare per tempo in quanto, dopo la rinuncia al giro sulle Alpi, mi sono iscritto per agosto a un viaggio in Bolivia con Avventure nel Mondo. L'arrivo in Bolivia implica un atterraggio all'aeroporto di La Paz, che sta a oltre 4000 metri di quota: quota alla quale mi vorrei preparare dormendo prima qualche notte oltre i 3000 metri, cosa questa che si può fare convenientemente sulle montagne di Peio.

Sia la seconda che la terza parte di questo racconto hanno strette connessioni con
http://forum.thetop.it/viewtopic.php?t=1499

Le foto riferite nella seconda parte sono nell'album
http://picasaweb.google.com/albertopedrotti/TreOrsi

2.1. Vioz e San Matteo.

Il primo giro di acclimatazione comincia dalla piazza di Peio paese, dove lascio la bici, a un'ora insolita, le 19.30. Arrivo in cima verso le 23, ma ci vuole del tempo a trovare un luogo al riparo dalle raffiche incrociate di vento, dove piantare la nuova tenda (se cosí la si può chiamare) che voglio sperimentare [001-002].

L'indomani interpello il gestore del rifugio, il quale mi dà via libera solo per l'anticima del Vioz. Dopodiché non mi resta che scendere [003-008]. Passando per il Fontanino salgo in bici fino alla passerella sul rio degli Orsi la quale, a un anno solo dalla costruzione, è già impraticabile [009-010]. Io qui devo in ogni caso parcheggiare, per poi salire la Val degli Orsi in direzione del Bivacco Meneghello. Arrivo giusto in tempo per salvarmi da un temporale [011-013]. Al mattino mi tratto bene ed esco che già c'è il sole, nonché una comitiva salita da fondovalle che già dirige verso la Cadini, per traversare al Vioz. Io dirigo verso il San Matteo, dal quale vorrei scendere in Valpiana. La neve fresca della notte, che sulle rocce sta cominciando a rammollirsi, me lo sconsiglia. Torno per la Val degli Orsi [014-018]. Termina qui la mia prima seduta di acclimatazione, in quanto alla sera sono precettato come organista a Luserna, dove con una bella salita serale dalla parte di Vattaro arrivo giusto al tramonto [019-020].

2.2. Anello Meneghello - Meneghello

Qualche giorno dopo [021] riprendo l'opera da dove l'avevo lasciata, ossia dalla passerella in fondo alla Val degli Orsi. Nella parte bassa, anziché seguire il lungagginoso sentiero, salgo direttamente seguendo un taglio fra i cespugli, come feci con gli sci nel 2008: scelta alquanto consigliabile [022-026].

Come già l'altra volta, il Meneghello è deserto e si presta a una grande dormita, ma a differenza di allora parto presto e dirigo verso il Vioz, come fecero quelli dell'altro giorno. Fatico a riconoscere la traversata che feci nel 1990. Gran parte della cresta è secca e, oltre a questo, diversi passaggi sono stati messi in sicurezza: sulla Rocca alla catena sono stati aggiunti dei fittoni; sulle lame sottostanti vi sono abbondanti corde fisse. La delicata discesa dalla Taviela è stata "messa in ordine" con due catene e con una serie di bolli di vernice che, canalizzando l'inventiva dei camminatori, hanno propiziato la formazione di una traccia ragionevolmente ripulita. In definitiva, oggi arrivo al Vioz in meno di cinque ore senza dover mettere mano agli attrezzi. Vorrei precisare: non sto affatto dicendo che l'itinerario sia diventato di serie B. La lucentezza delle lame di roccia, l'eleganza delle creste di neve, il senso di sospensione che si prova a navigare per ore sopra un mare di nuvole, l'assoluta solitudine non sono stati minimamente scalfiti dalla posa di due o tre orpelli [027-032].

Dopo una pasta al rifugio Vioz, scendo al Doss dei Cembri e di qui, per il sentiero del Tedesco, torno alla base di quello che è diventato il tormentone di questi giorni: la Valle degli Orsi che risalgo per la terza volta. Non cambiano i luoghi, non cambiano neanche le persone: al Meneghello ritrovo due della comitiva dell'altro giorno. Molti si scandalizzano del mio tornare sempre negli stessi posti, ma evidentemente non sono l'unico. Per la serata, tuttavia, ho in mente fin da prima una piccola innovazione: voglio provare la tenda sulla cima del San Matteo. In realtà il buio mi costringe a ridimensionare i propositi, e a fermarmi nel plateau sotto la vetta, non lontano dalla Giumella [033-038].

2.3. Le due Valpiane, rivisitate

Al mattino [039-041] salgo alla Giumella dove, nel 2008, con gli sci ero stato respinto da una delle ultime forcelle sulla cresta SE
http://www.thetop.it/index.php?page=view_abs&n_abs=6818
Voglio andare a prendermi la classica rivincita estiva, che in effetti è alquanto semplice [042-045].

Il sèguito della giornata è invece occupato da un'indagine riguardante la gita effettuata due giorni dopo quella sopra citata:
http://www.thetop.it/index.php?page=view_abs&n_abs=6831

Da essa era rimasta la curiosità di controllare se vi fosse un passaggio in quota fra le "due Valpiane". La risposta è affermativa. Dal San Matteo si scende, secondo condizioni, sulla vedretta [046-047], che si attraversa con percorso a semicerchio portandosi poco a E della quota 3293 della carta Tabacco. Si traversa ancora brevemente per detriti e nevai, senza perdere quota, fino a toccare un costolone di roccia piú solida. Da questo scendono due canali praticabili. Prendendo il piú alto si arriva proprio in pari con il laghetto quota 3057 [048], che si raggiunge attraversando in piano comode morene fiorite. Il luogo è molto bello anche d'inverno; le foto in
http://picasaweb.google.it/albertopedrotti/PeioConDaCapo
mostrano i luoghi nelle due stagioni. L'apparato filosofico inerente è esposto in
http://forum.thetop.it/viewtopic.php?t=2852

Vento freddo e nubi irrequiete mi distolgono dal proposito di tentare un bagno. Seguendo il percorso invernale, ancora piuttosto innevato, raggiungo la cresta di Villacorna [049] che seguo fino al palo. Scendo poi in direzione Gavia, risalgo al Pizzo di Vallombrina e da questo, per camminamenti, taglio senza toccare la Battaglione Ortles in direzione del superiore dei due laghetti. Nell'inferiore [050] arrischio un bagno, anche se vi resisto pochi secondi. Al Berni [051] fatico a ritrovare Gino il quale mi è venuto incontro verso il Ponte dell'Amicizia anziché verso il Pian Bormino. Si fa cosí troppo tardi per salire al Seveso, ragion per cui pernottiamo in loco.

2.4. Giro del Corno dei Tre Signori

Itinerario proposto da Gino. Dal passo Gavia si prende la mulattiera [053], che si lascia a un tornante per seguire una segnalazione per il Rifugio Bozzi. Non lasciarsi ingannare dal fatto che la mulattiera, molto piú comoda, continua ad essere segnata: va a perdersi sul fianco della montagna. Purtroppo in questa zona la segnalazione dei sentieri è assai discutibile (vedi sotto). Si arriva ai piedi della Forcella dei Tre Signori. Il primo passaggio è di una friabilità repulsiva, senza i cordini sarebbe dura. Sopra va meglio. Raggiunta una crestina si è in vista della cima [054]. Puntiamo a un intuitivo intaglio sulla cresta (schizzo molto chiaro sul Buscaini del 1984, ma non serve).

Sugli ultimi metri per scrupolo ci leghiamo. Il filo che segue è facile. A un certo punto Gino dichiara di sentire uno strano rumore, e teme che si sia rotta la borraccia del vino rosso - l'incidente che lui più teme. Avvicinandomi capisco che la diagnosi è diversa: sono i nostri bastoncini che friggono. Molliamo tutta la ferraglia e ci presentiamo ai Tre Signori [055-056] curvi quanto la schiena ce lo consente. Non so se giornalisti e/o intellettuali italiani saprebbero fare di meglio. Recuperiamo la ferraglia e scendiamo, arrivando ai piani alti di Ercavallo; comincia a piovere e salgono nebbie. Giriamo in quota attorno a varie diramazioni di cresta, fino ad affacciarci sullo spartiacque Lombardia/Trentino. Una forcelletta espone un ometto tentatore ma la discesa sull'altro lato è pessima. Consigliabile andare a quella sotto - peraltro l'ultima utile per non scendere troppo in basso alle sorgenti del Noce. Riusciamo a scivolare in fondovalle [057] in un punto favorevole per traversare verso il sentiero che sale a Passo Dosegú. Sempre sotto la pioggia, raggiungiamo la Capanna Battaglione Ortles [058-061].

2.5. Anello Battaglione - Battaglione

Dalla capanna e dal Pizzo di Vallombrina seguiamo la cresta e, appena possibile, caliamo sul ghiacciaio [062-065]. Mentre Gino punta dritto a Cima Dosegú, io faccio una puntata sul San Matteo, che raggiungo per la terza volta in questi giorni [066]. È la settima volta che salgo quassú partendo dalla bici; la prima fu l'1 agosto 1999, esattamente dieci anni fa. Il giorno prima avevo messo in forte apprensione la SAT di Pergine, che mi aspettava al Gavia, arrivando da Ledro e dal Maniva solo alle dieci di sera. Quel giro proseguí poi attraverso i passi della Svizzera fino al Piemonte, dove si concluse con la salita al Rocciamelone in compagnia di Pier Marco Bertinetto, personaggio che piú avanti ritroveremo - o meglio, mancheremo per un soffio di ritrovare.

Dopo la Dosegú come noto vengono la Pedranzini e il Tresero, ma non vi è nulla di memorabile da segnalare dato il panorama ostruito dalle nebbie [067]. Scendiamo al Berni [068-069] dove Gino trova un passaggio per recuperare la macchina al passo. Conti alla mano capisco che è troppo tardi per farmi portare al Fontanino, andare a recuperare la bici, e sperare di rincasare entro sera con la Trento-Malè. Decidiamo di cenare in anticipo; poi Gino rientrerà e io traverserò per creste di nuovo alla Battaglione.

Le cucine del Berni però mi rifiutano la richiesta di una pastasciutta servita con un'ora di anticipo. La cosa non mi sorprende piú di tanto dato che nel 2007 qui mi rifiutarono - caso unico - la ricarica di una batteria. Io non ho scorte ma Gino, prima di partire, mi regala un po' di prosciutto e di formaggio. Entro ad annunciare, per correttezza, la mia partenza verso il Passo della Sforzellina; mi sento replicare che il passo è da tempo impraticabile. Nessuna menzione di ciò al rifugio oppure nelle tabelle segnaletiche, nonostante che il sentiero sia segnato e numerato tanto sul terreno quanto sulle carte. In realtà a me il dettaglio importa solo relativamente dato che ho intenzione di piegare, sotto il passo, verso lo splendido laghetto che scoprii nel 2007 poco sotto la cima. Lo trovo salendo liberamente per roccette e corti valloni; il lago è ancora abbondantemente ghiacciato [070-073]. Dalla cima, che si raggiunge a vista, seguo integralmente la cresta che adduce a Passo Dosegú [074-076]. I saliscendi sono laboriosi ma mai difficili; lungo il percorso vi sono anche delle interessantissime e probabilmente quasi mai visitate postazioni di guerra. Percorrendo gli ultimi metri a tentoni, e con la collaborazione della luna, riesco a raggiungere la capanna. L'indomani scendo per il sentiero di Vallombrina e arrivo sotto un temporale a Malga Paludei. Poco oltre, constato con piacere che la bici c'è [077-081]. Ora che mi sono affezionato a questi su e giú per le valli di Peio rimarrei ancora, ma è tempo ormai di tornare e preparare il bagaglio per la prossima avventura.
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MessaggioInviato: Mar Set 22, 2009 10:52    Oggetto:
 
3. Bolivia: i tre vulcani.

Le foto riferite nella terza parte sono quelle dell'album
http://picasaweb.google.com/albertopedrotti/Bolivia

3.1. La Paz

Lascio casa la sera del 6 agosto per dormire all'aeroporto di Venezia. Gli altri sette del gruppo di Avventure nel Mondo partono da Milano o da Roma; ci troviamo dunque all'aeroporto di Madrid [001]. In un interminabile pomeriggio inondato di luce sorvoliamo l'Atlantico prima e la foresta amazzonica dopo, per atterrare a Lima dove trascorreremo la notte. Iniziamo il viaggio da gaudenti andando a rimpinzarci alla Rosa Náutica, uno dei locali piú suggestivi della città, dove si mangia in mezzo alle onde del Pacifico [002]. Ci concediamo queste raffinatezze grazie al fatto che piú d'uno dei nostri è veterano di Sudamerica. L'indomani [003], prima di sbarcarci a La Paz, l'aereo ci fa fare scalo a Santa Cruz de la Sierra, nell'Amazzonia. Controllo se ci fosse in giro il mio amico Pier Marco Bertinetto - quello del Rocciamelone, per intenderci: da tempo passa l'estate in Bolivia perché vuole scrivere la grammatica di una lingua locale. Ci eravamo lasciati lamentando il fatto che io arrivassi a La Paz il giorno che lui partiva da Santa Cruz, e invece eccomi qui anch'io. Tuttavia il caso stavolta non si spinge fino al punto di farci incontrare.

Ecco finalmente il temuto sbarco all'aeroporto di El Alto, immensa spianata stesa come con un mattarello fra il riflesso dorato del Lago Titicaca e i burrascosi contrafforti della Cordillera Real. Siamo a 4061 metri, la stessa quota del Gran Paradiso. Anche se la sola El Alto fa ormai quasi un milione di abitanti, il grosso della capitale sta sotto, assurdamente appesa ai canyon posti al margine dell'altopiano. Scrive Leonardo Vergani: «soltanto un monaco fanatico come Pedro de la Gasca, inviato di Carlo V per mettere pace fra Pizarro e Almagro, poteva ispirare la fondazione, attuata poi da Alonso da Mendoza, di una capitale come La Paz, una città che assomiglia a un nido di condor». La pendenza di alcune strade cittadine ha dell'incredibile, e non si capisce dove trovano la forza di salire i tipici minibus che sembrano andare in pezzi da un momento all'altro, e invece continuano il loro andirivieni stipati fino all'inverosimile, mentre un urlatore professionista letteralmente appeso al portellone scorrevole proclama a ciclo continuo, come una litania, il percorso in tutte le sue tappe. Nella centralissima Plaza San Francisco, stando a debita distanza, queste declamazioni diventano mormorii, e si ha allora l'impressione di trovarsi nella navata di una grande cattedrale durante la recita di un rosario.

A La Paz, sia detto senza tanti giri di parole, perdiamo un'ingente quantità di tempo perché dall'Italia non abbiamo organizzato nulla. Abbiamo in mano solo i biglietti d'aereo (la povera Carla a Madrid aveva scoperto di non avere nemmeno quello; con grande saldezza d'animo ha telefonato a Roma per farsi sentire, e cosí l'abbiamo trovata al mattino a Lima...). Dobbiamo decidere come spendere il tempo di acclimatamento: la soluzione piú ovvia è andare al salar di Uyuni, ma non si sa se con mezzi pubblici, o con un pacchetto turistico, o affittando un fuoristrada con autista, o affittando un fuoristrada autogestito. Sarà questa la soluzione alla quale approderemo al terzo giorno di ricerche.

Nel frattempo abbiamo tempo per sentirci come a casa nelle calles di questa città incredibile, le quali si saldano in un unico ed onnicomprensivo mercato [003-014, 016-023]. Fra gli stati sudamericani la Bolivia è quello che presenta la maggior percentuale di Amerindi: le due etnie quechua e aymarà sommate rappresentano il 55% della popolazione. Le donne aymarà in particolare si distinguono facilmente per la caratteristica bombetta che portano.

Nel mercato, ogni strada assume un ben preciso ruolo [017]. Ma lo stesso è vero anche al di fuori del mercato. Ad esempio, tutte le agenzie di viaggio ci concentrano nella zona di Calle Sagàrnaga. Sono numerose, ma secondo le regole della globalizzazione propongono tutte rigorosamente le medesime cose. Per gli alpinisti c'è un bel mazzetto di montagne di 6000 metri. Per i naturalisti c'è l'Amazzonia in tutte le salse. Per i passeggiatori della domenica c'è la vicina Valle della Luna [015]. Per i ciclisti il piatto forte è la Strada della Morte, o Strada piú Pericolosa del Mondo: una stretta lista di ghiaia, scavata nelle pareti che digradano verso le yungas (ossia le valli che precedono l'Amazzonia), chiusa solo da poco al traffico ordinario e riservata ai ciclisti, dopo aver mietuto decine di vittime. Quelli che cercano l'avventura si fanno portare in furgone fino a 4500 metri, e di lí si buttano giú in mountain bike, in squadroni di dieci o venti. La guida Lonely Planxet, Bibbia del turista moderno - nonche summa del disincanto e dell'onniscienza che a costui deriva dall'aver timbrato il cartellino in ogni angolo di mondo - raccomanda di accertarsi che il pacchetto includa la disponibilità di "corda di salvataggio, imbragature, chiodi e ossigeno": niente male per un giro in bici! Cosí d'altronde funziona l'odierna civiltà dei pacchetti. Detto per inciso, se uno cerca di affittare una semplice bici al di là dei pacchetti, a La Paz avrà la vita virtualmente impossibile.

Al mattino prima di colazione io vado a correre su per le ripide scalinate che drenano i recentissimi quartieri - possiamo ben dire di precarie "favelas" - posti fra il centro ed El Alto. Non è facile la vita nella città delle sette di mattina, ancora presidiata da branchi di cani randagi, ma, nel mentre che si vanno caoticamente agglomerando i mercati di strada, si vedono tante e tali bizzarrie che sarebbe un peccato stare a letto.

3.2. Verso Uyuni

Noleggiata una Toyota, finalmente lasciamo La Paz, qui ritratta sullo sfondo delle sue montagne [024-026]: Nevado Huayna Potosí, 6088 m, Cerro Mururata, 5864 m, e Nevado Illimani, 6438 m, splendida e complessa vela spiegata al vento.

Bisogna sapere che vi fu un tempo in cui le piú alte montagne della Bolivia litigavano di continuo fra di loro per il primato. A un certo punto Pacha, il Creatore, si ruppe le scatole e decretò che vi fosse un armistizio. Al momento, l'Illimani era superiore a tutti i contendenti: Illampu, Ancohuma, Huayna Potosí e Condoriri. Un vicino dell'Illimani, però, per invidia ne mise in discussione la supremazia. Pacha si infuriò: ma come, non ho detto io che si faceva pace? E tale fu la sua collera che, presa la sua terribile falce, tagliò la testa dell'insubordinato con tale violenza, che questa andò a conficcarsi da tutt'altra parte dell'altipiano... Cosí, nel bel mezzo delle montagne piú alte abbiamo il Mururata decapitato. Ben lontano da esse, invece, dove uno meno se lo aspetta, vi è il Sajama, che in lingua quechua significa «esiliato».

Ed eccoci finalmente, dopo tanti impedimenti, in viaggio per gli altipiani [027]. A sera siamo a Oruro, dove improvvisamente ci troviamo con una gomma a terra [028]. Abbiamo cosí già pronta un'occupazione per la mattinata di domani.

A Oruro [029-034] la tradizionale corsa mattutina mi porta sulla collina in mezzo alle miniere di stagno; la città ha infatti ereditato il ruolo di capitale mineraria che è stato per secoli di Potosí, dopo che in quest'ultimo luogo si sono esaurite le miniere d'argento che hanno reso tanto preziosa la Bolivia per gli spagnoli. La Spagna dell'epoca di Filippo II tratteneva il fiato non nell'attesa dei dati aggiornati sul PIL, come accade nella laboriosa Italia di oggi, bensí nell'attesa delle navi provenienti dall'America, per vedere quanto argento era stato scavato a Potosí nell'ultimo anno. Ovviamente come tutte le ricchezze anche questa aveva il suo prezzo, ed è incalcolabile il numero di minatori, specie schiavi africani, morti in questi luoghi dal 1500 in poi. Tra l'altro, chi non scavava fondeva e quindi moriva per le esalazioni del mercurio impiegato nel processo di lavorazione.

Tutto ciò trova la sua commemorazione nella Diablada di Oruro, che ogni anno costituisce il culmine del famoso Carnevale. Si tratta di un capolavoro di sincretismo fra cultura cristiana e indigena, nel quale sfilano Pizarro e Almagro, la Virgen del Socavón e San Michele Arcangelo, incaricato di combattere, con la sua schiera di angeli, la schiera dei diavoli che sono padroni delle risorse del sottosuolo, e castigano chiunque le vada a cercare con la tosse detta appunto «del diavolo» - la silicosi.

Poco a sud di Oruro, a Challapata [035-036], finisce l'asfalto boliviano; il Paese è grande il triplo dell'Italia ma conta poco piú di 4000 km di strade asfaltate, e in particolare tutto il Sud ne è privo. La pista che dovrebbe portarci verso il vulcano Tunupa inizia subito in maniera traumatica, e già al primo guado non abbiamo il coraggio di osare [037-040]. Torniamo sui nostri passi rassegnati a seguire la pista piú importante, ossia quella per Uyuni [041]. A Sevaruyo ci fermiamo a fare qualche foto al tramonto [042]. All'atto di ripartire, la Toyota non dà alcun segno di vita. Fortunatamente stavolta si tratta solo di un morsetto che con le buche si è staccato dalla batteria.

Il viaggio continua lungamente nella notte. Io sto seduto proprio sopra la ruota posteriore, il luogo ideale per godersi tutti i sobbalzi. Alla radio parlano della decisione del presidente Evo Morales di acquistare nuovi armamenti dalla Cina e dal Giappone. Evo, ex sindacalista dei cocaleros, amico di Castro e di Chàvez, e con loro allineato su posizioni anti-USA, essendo un aymará della regione di Oruro è molto amato dalle popolazioni andine, che lo vedono quasi come un successore di Huayna Capac e Tupac Amaru. Ha risollevato il bilancio dello Stato nazionalizzando il gas e il petrolio, e fin qui tutto bene. Poi però ha tentato di operare una redistribuzione delle terre piú ricche - quelle di Santa Cruz e dell'Amazzonia - coinvolgendo nella loro coltivazione anche le popolazioni degli altipiani. E qui apriti cielo: le province della «bassa» hanno prontamente indetto referendum per sfiduciare il presidente e operare una secessione. Non è da escludere che un giorno l'Amazzonia e la Padania formino un asse in nome della comune lotta contro i rispettivi oppressori, gli andini e i terroni.

Fuori dal portellone la volta stellata s'incurva e sobbalza secondo le asperità della carreggiata. Piú tardi i vetri vengono doppiamente blindati da uno strato di condensa e da un dito di polvere, e noi ci troviamo chiusi nel nostro guscio. Unici eventi dei quali siamo partecipi, gli incroci con i camion e gli autobus, che solo da ultimo si fanno giganteschi dopo essere stati per lungo tempo solo dei puntini luminosi zigzaganti sopra la puna. In alternativa ci sono gli improvvisi stop davanti alle stanghe dei posti di polizia. Non manca mai una qualche apprensione, finché non si vede che tipo di individuo esce dall'ombra. Già alla prima occasione uno di questi signori si è inventato per noi una multa di cento bolivianos. Per fare un raffronto, il gommista di Oruro ha lavorato mezz'ora nella polvere per dieci bolivianos.

Finalmente entriamo in Uyuni. A cena il risvolto piú piacevole è la vicinanza di una stufa. Al mattino nella mia tradizionale corsetta ho modo di apprezzare l'effetto di quattro gradi di latitudine: la quota di Uyuni, 3660 metri, è praticamente la stessa de La Paz; qui però il ghiaccio sulle pozzanghere non è piú un velo, ma una corazza. Visitiamo il caratteristico Cementerio de Trenes [043-047]: lo sviluppo delle ferrovie in Bolivia è strettamente connesso all'attività mineraria. Siccome poi manca quasi del tutto l'industria di trasformazione, gran parte del materiale estratto prende la via dei paesi limitrofi, e specialmente del Cile.

Entriamo nel salar [048-049]: l'unica strada comoda di questa regione! Esteso quasi quanto il Trentino, è percorribile praticamente ovunque, sia quando è completamente asciutto, come ora, sia quando capita che sia coperto da uno straterello di acqua. L'unica attenzione va posta ai margini, dove il terreno può essere piú insidioso, come mostrano questi Oyos del Salar [050]. Nei casi piú problematici le piste di entrata e uscita dal salar sono delimitate da bandierine e ometti, proprio come in un porto o in aeroporto.

Si oltrepassano gli Hoteles de Sal, costruiti interamente di tale materiale, prima di addentrarsi verso il centro della spianata [051]. Si segue la traccia sporca lasciata dalle gomme dei fuoristrada, magari con un occhio alla bussola e al GPS. Dopo un'ottantina di km si arriva all'isola Incahuasi, nome che significa Casa dell'Inca ed appartiene anche qualche montagna andina. L'isola (impropriamente detta anche Isla del Pescado) è notevole per la sua copertura di cactus; contro le sue coste il mare di sale, che altrimenti mostra una regolarità pressoché geometrica, sembra incresparsi in quelle che appaiono come delle onde cristallizzate [052-057].

Procediamo per altri 40 km puntando il vulcano Tunupa, che sarà la nostra prima salita di acclimatazione. Raggiungiamo l'atmosfera rarefatta di Coqueza: poche case, una chiesa, un albergo di sale, un branco di lama al pascolo quasi a contatto con i flamencos, i fenicotteri delle lagune andine [058-066].

Verso sera risalgo di corsa l'ampia china terrazzata che sovrasta il paese, fino a un ometto che a quota 4250 segna l'inizio del traverso in direzione del vulcano. La salita inizia su una sterrata e prosegue su sentiero fra gli alti muretti a secco, ora ristrutturati, che delimitavano gli appezzamenti di un tempo. Ho sbagliato qualche calcolo e mi lascio sorprendere dal buio istantaneo dei tropici. In discesa manco la sterrata e ho un rientro molto laborioso [067-072].

I compagni, che avevano già pianificato i soccorsi, mi hanno lasciato un po' di cena, dopo la quale ci si veste bene bene e si va in strada a vedere "l'allucciolìo della Galassia" come non s'era mai visto. Come già accadde un'altra volta, mi vengono in mente alcuni versi di Ovidio: "C'è in alto in cielo una via, che si vede quand'è sereno. Lattea si chiama, e spicca proprio per il suo candore. Di qui passano gli dèi per recarsi alla dimora del gran Tonante, alla reggia." Mi viene in mente anche quando era stata quell'altra volta: era qualche anno fa, su una certa panchina del Peloponneso... In effetti, gli dèi del Tunupa non sono certo quelli dello Helmos, ma questo non esclude - ed anzi piace pensare che sia proprio cosí - che la loro reggia sia la medesima.

3.3. Tunupa (5350 m)

Il giorno seguente è dedicato alla salita del vulcano. Il sentiero porta, in mezzo a una ridda di diversi colori, fino a un colletto candido sulla sinistra dei due corpi rocciosi sommitali [073-083]. In attesa che arrivino i compagni esploro la continuazione. Due ore di logorio su roccia friabile e terreno ghiacciato valgono a farmi aggirare il primo spuntone, ma l'ultimo risalto del secondo mi respinge. Non mi dispero piú di tanto, date le vedute incredibili che mi si parano davanti a ogni nuova forcella, specialmente sui valloni che digradano verso il salar de Coipasa [084]. Quando rinuncio l'altimetro segna 5350 metri, contro i 5432 del punto piú alto che, come ci spiegheranno dopo, andrebbe affrontato da tutt'altra parte. Da Coqueza, infatti, si usa salire solo la sommità del crestone rossastro sulla sinistra, unico rimasuglio della parte anteriore, collassata, del cratere.

Al colletto candido trovo Mariagrazia e Francesco [085]. Si festeggia; se infatti Mariagrazia è già stata anche sullo Huascaran, per Francesco e me si tratta invece della prima salita oltre la classica soglia dei 4810 metri. Torniamo poi al crestone rossastro; alla sua base troviamo anche gli altri [086-087]. Noi ultimi arrivati chiediamo chi fosse l'originale che abbiamo incontrato piú sopra, celato dietro un paio di occhialoni e un sombrero. Apprendiamo che si trattava del nostro capogruppo. Decidiamo di aspettarlo, ma quello sale a oltranza, senza rispondere ai richiami. Cominciamo a preoccuparci. I compagni mi guardano. Capisco l'antifona: lascio lo zaino e prendo a risalire la faticosa china detritica. Raggiungo Andrea a pochi passi dalla cima. Lo prego di affrettarsi a scendere, perché sono tutti in apprensione. Solo che affrettarsi a scendere non è facile come a dirsi quando, in una luce come quella calda e carica di questo nostro tardo pomeriggio, ci si trova alti sopra un paesaggio tanto eccezionale. E tutto cominciò, pare, il giorno in cui Atahualpa sfregiò il seno di una donna di nome Tunupa: quello che vediamo sullo sfondo delle immagini [088-089] è proprio il latte che ne sgorgò. Ma un giorno la storia potrebbe proseguire con un altro sfregio, colpa stavolta di una cupidigia diversa: la nostra fame di... batterie. Il salar è infatti di gran lunga il maggior deposito di litio al mondo, e pare che diverse multinazionali, in primis la Mitsubishi, vi abbiano già allungato gli artigli... Atahualpa e Mitsubishi: questi due nomi potrebbero segnare l'inizio e la fine di uno dei luoghi piú straordinari del mondo.

Di ritorno dal Tunupa non si trova la chiave della Toyota. Setacciamo il sale in tutti i locali ma la chiave non salta fuori: non resta che mandare qualcuno a Uyuni (qui il telefono non prende) per chiamare La Paz e dire che ci mandino la doppia chiave su un autobus. Al mattino parte il fuoristrada con a bordo la delegazione, ma eccolo inseguito da una figura che si muove con velocità da centometrista: la chiave è appena stata restituita da una tasca posteriore di un beauty case dimenticato appeso a un muro di sale in bagno. Il viaggio può dunque riprendere.

3.4. Savaya.

Seguendo la Ruta Intersalar [090-092] raggiungiamo il Salar de Coipasa [093-094]. Questo è piú ostico al transito di quello di Uyuni, e presenta spesso una poltiglia bagnata nella quale vediamo camion e autobus avanzare a fatica, sollevando schizzi che li fanno sembrare degli aliscafi. Il pueblo che dà nome al salar, ossia Coipasa, sta anch'esso sulle falde di un vulcano, che sembra proprio sorgere dalla distesa bianca, connesso alla "terraferma" solo da uno stretto istmo.

A noi però non serve andarci, poiché la nostra meta è Savaya [085-101], ormai fuori dal salar. In questo paese tutto vento e polvere coltiviamo l'illusione di una doccia calda che in realtà pochi riusciranno a fare, poiché le scorte portate dalle autobotti sono quel che sono.

Da Savaya partiamo per la tappa piú pazza del viaggio. Su indicazione dei militari del locale presidio, partiamo nella direzione sbagliata, e ci troviamo in vista dei rilievi al confine con il Cile. Ai quali arriviamo, grazie ad altre indicazioni sbagliate. Col tempo ci rendiamo conto che qui non si deve mai presentare un problema di ottimizzazione del tipo «qual è la strada migliore?» nella sua formulazione decisionale «siamo sulla strada giusta?» (Chi non capisce la terminologia può studiarsi il Garey-Johnson; abbia però poi cura di cancellare tutto prima di venire qui). Il fatto è che gli indigeni sembrano avere un'incorreggibile tendenza ad assecondare l'interlocutore, e preferiscono mandarlo nella direzione opposta piuttosto che deluderlo con un «no»...

Accade cosí che, a una sperduta mina di frontiera oltre i 4000, dal nome Todos Santos, ci troviamo a fare inversione di marcia e ad affidarci agli sconquassi di uno strampalato passo di montagna per tornare sulla retta via.

Appare con le sembianze di terra promessa - per giunta con il Sajama finalmente sullo sfondo - una vasta pianura [102-103] che in realtà si rivela un concentrato di tranelli. La pista continua a ramificarsi, e ogni volta si deve indovinare quale ramo andrà a insabbiarsi, quale a impaludarsi, quale presenterà il guado piú agevole etc. Poi si tratta di scegliere, fra i tanti, il male minore.

Tutto sommato non ce la stiamo cavando indegnamente quando sentiamo una ruota cedere: è la seconda foratura [104]. Dato l'isolamento del posto, e il fatto che non passa nessuno, la situazione mette una certa apprensione. Avremmo fatto meglio a notare fin dall'inizio che qui in Bolivia non è usanza girare con una, bensí con due ruote di scorta - oltre che con minimo altrettante taniche di benzina sopra il tetto.

Guadi, insabbiamenti e sprofondamenti nel fango [105] si susseguono con ritmo incalzante; si deve spingere, scavare, posizionare assi e frasche... Durante la giornata l'ipertrofico bagaglio avanza inesorabilmente sul tetto e a fine tappa andrà riportato indietro. Abituato alla bici, che in pochi istanti si spinge, o si porta in spalla, oltre gli ostacoli, sono un po' disorientato dalla macchinosità delle disavventure che si hanno con il nostro cassone. D'altronde non ne faccio una malattia; si tratta comunque di un'esperienza diversa ed interessante. (Beninteso, ora non parlerei cosí se non avessimo avuto con noi due ingegneri-factotum, Edoardo e Francesco, che oltre a guidare per 2000 km e piú con la loro abilità hanno saputo tirarci fuori da ogni impiccio.)

Con percorso sempre, a dispetto di tutte le complicazioni, spettacolare [106-107] arriviamo a Iulo, una postazione militare da deserto dei Tartari, dove noi siamo confortati dal vedere i soldati, e i soldati sono confortati dal vedere noi: il boss della caserma approfitta del nostro passaggio per tenerci mezz'ora a chiacchiera. Nei pressi si trova la splendida quanto sperduta Laguna Macaya [108-110]; ci chiediamo se qualche turista l'avrà mai vista prima di noi.

Passiamo gli ultimi guadi. Nei guadi io ho il ruolo di assaggiatore: meglio infatti ispezionarli con i piedi prima di avventurarvisi con le ruote. Un guado in apparenza corto e poco profondo può in realtà rivelarsi letale, specie se il ristagno dell'acqua favorisce l'accumulo di materiale limaccioso. Al contrario, un guado piú lungo e profondo, ma ben ripulito dalla corrente, può essere del tutto sicuro. Il guado della foto [111], per intenderci, è classificato innocuo. Ovviamente è nostra fortuna essere nella stagione secca, e in zona desertica.

Dirigiamo verso Tambo Quemado, sulla carta un importante posto di frontiera lungo la strada asfaltata La Paz - Arica. Qui la nostra fantasia si dipinge tutta una schiera di benzinai e di gommisti che aspettano solo noi. A dire il vero la fantasia è corroborata da precise informazioni da parte dei locali - per le quali tuttavia valgono sempre le osservazioni di sopra.

A Chachacomani, quando già facciamo il conto alla rovescia per l'asfalto, ci raggiunge un gran frastuono. Si festeggia l'Assunta ballando sulle note di un complesso musicale venuto da Oruro [112-117]. L'arrivo della nostra Toyota provoca scompiglio quasi fossimo una caravella di Colombo. Veniamo spinti in mezzo all'arena. Dovunque ci giriamo siamo investiti di domande e/o schizzi di birra. Ci insegnano, casomai ci fosse utile, come si individuano le donne "da maritare", guardando al vestito. Fatichiamo a riprendere il viaggio: come del resto sempre accade, per motivi contrastanti, dove c'è un'accoglienza cosí calorosa.

A Tambo Quemado un tale problema non sussiste. Vi sono solo la dogana, una successione di negozietti, e un ristorante. Manca un vero albergo; veniamo alloggiati dal gestore di un locutorio telefonico. Guardiamo fuori dalle finestre l'interminabile fila di camion in attesa di valicare la frontiera. Ciononostante, non vi è nessuna traccia della nostra schiera di gommisti. In Cile non possiamo andare per via dell'assicurazione, e in Bolivia il piú vicino gommista è a 180 km. Pensare che a a El Alto vi è una strada lungo la quale per diversi chilometri si susseguono solo gommisti. Ma in questi luoghi sarebbe un errore ragionare secondo le nostre logiche. O forse, piú semplicemente, è un errore ragionare secondo logica.

Fuori il vento sembra pungere. Arriva direttamente dal Pacifico, e siamo a quasi 4500 metri. Egidio, che è mio compagno stasera nella nostra stanza priva di lampadine, ha grande esperienza di Ande e mi assicura che non questo vento non andremo lontani. Io però ho anche altri problemi: per tutto il giorno mi sono sentito debole, e ora sto decisamente male.

3.5. Parinacota (6342 m)

Finalmente il giorno dopo, lasciato Tambo [118-119], raggiungiamo la nostra meta, Pueblo Sajama, che sarà la nostra residenza per i successivi dieci giorni. Il paese si trova a 4250 metri fra il Sajama, 6542 m, cima piú alta della Bolivia, e i due vulcani Parinacota e Pomerape, posti al confine con il Cile, e noti anche collettivamente come «Los Payachatas», ossia i Gemelli. Il nome del Parinacota (6342 m) in lingua quechua significa "lago dei fenicotteri"; quello del Pomerape (o Pomarata, 6282 m) significa invece "montagna del puma" [120-128]. Il paese è anche la porta di ingresso del Parco Nazionale Sajama (il piú antico della Bolivia), continuato in Cile dal Parco Nazionale Lauca. All'ufficio accettazione ci indirizzano a un ostello, che poi consiste in un patio con tre camerette, una per la famiglia e due per gli ospiti, oltre a una piccola tienda che dà sulla strada. Un piccolo bagno, e fuori all'aperto una fontanella che ghiaccia tutte le notti e comincia a riaversi a metà mattina.

Faccio conoscenza con i luoghi salendo fino a un panoramico contrafforte di 5000 metri posto fra il Sajama e il pueblo [129-133]. Nel frattempo però ho capito di avere contratto un'infezione intestinale. Il giorno dopo me ne sto al pueblo a leggere racconti di Joseph Conrad, nel mentre che i nostri ingegneri-benefattori si accollano il compito di andare fino a Patacamaya, il famoso luogo distante 180 km dove c'è il gommista.

Intanto ci abituiamo alla vita del paese, che è molto spartana. Le camere sono freddissime, anche nelle ore centrali del giorno quando fuori il sole picchia. A sera la cosa piú gradita è scomparire nei sacchi a pelo. La cena è nella tienda, gelida anch'essa. Il menú è invariabile, consistente di arroz (ossia riso cucinato in maniera alquanto barbara), papas fritas (patatine) e a scelta uova oppure una carne di lama che noi chiamiamo familiarmente "vibram". La playlist è anch'essa invariabile, e tutte le notre colazioni e cene sembrano originare da una canzonetta sentimentale ove una voce innocente e cristallina intona «escucha mi corazon, escucha su dolor». Vi sono anche momenti piacevoli. Il migliore, specie quando fa piú freddo, è l'arrivo di una bella thermos di mate de coca oppure di trimate, miscuglio caratteristico di coca, anice e manzanilla (camomilla).

Un altro è quando Andres, il nostro hospitalero, cuoce il pane - con il piacevole side-effect di mitigare il gelo. Quale sia la sua occupazione primaria, difficile dirlo. Lo vedremo lavorare come portatore al Parinacota. Accetterà di fare da cocinero a noi sul Sajama quando la folta schiera dei cocineros desiderosi di mettersi al nostro servizio si rivelerà analoga a quella dei gommisti di Tambo. Appena arrivati lo troviamo ad aggeggiare sconnessamente a una bici. Gliela rimettiamo in sesto Egidio ed io; quando poi gli chiedo di affittarla e spara una richiesta assurda. Il giorno dopo lo vediamo ripetere le nostre mosse su un'altra bici, che poi espone orgogliosamente fuori dalla tienda, accanto al suo mastodontico pajero - che si fatica a credere proveniente dallo stesso patio della fontanella asmatica e del wc sporco oppure ostruito. Fra le varie occupazioni, comunque, il nostro sembra anche essere il fornaio del paese, anche se qui il pane non si fa tutti i giorni, come non tutti i giorni si riesce a trovare una banana oppure uno yoghurt.

Arriva finalmente il momento di salire le montagne. La prima sarà il Parinacota, dove ci arrangeremo senza guide e senza portatori. I miei compagni vanno a montare il campo, mentre io, che mi considero ancora convalescente, rimango a letto. Verso mezzogiorno cambio idea: mi sento guarito. Mi incammino senza precisa meta e quello che ne esce è un percorso ad anello che passa attraverso il campo base del Sajama (4810 m), la forcella sui 5100 che lo domina sulla destra, e varie altre peripezie che dopo sette ore mi riportano al pueblo [134-136]. Nelle ultime due foto si nota quella specie di muschio che è la yareta, o llareta, molto ricercata per le sue virtú come combustibile che ne fa uno dei pochi mezzi di riscaldamento. Fortunatamente anche qui in Bolivia si comincia a vedere qualche pannello solare; c'è molto piú sole che non legna da bruciare.

Il giorno seguente saliamo a raggiungere le nostre due avanguardie che si sono fermate a guardia del campo base. Siamo in cinque perché l'ottava del gruppo, Carla, ha dichiarato fin dall'inizio di accontentarsi dei campi base, anche se il suo stakanovismo nel camminare potrebbe portarla ben oltre. Io che ieri ero assente oggi mi ritrovo sotto uno zaino che sfiora i 30 kg. Fortunatamente c'è meno di un'ora di cammino dal termine della pista, 4900 m circa, fino al campo base, 5080 m [137-138].

Occupiamo il pomeriggio con una ricognizione. Il sole tiepido e il vento ragionevole rendono piacevole la salita, e io mi spingo fino a 6000 metri, per una costola terrosa insinuata nel campo di penitentes che ricopre il cono sommitale. La cima è lí a due passi ma, data la natura del terreno, si tratta di passi laboriosi. Scendo dispiaciuto di non aver neanche pensato alla possibilità di un raid pomeridiano. Sentivo le guide degli altri gruppi parlare di sette ore, e quindi me n'ero rimasto accanto alla tenda a prendere sole. Non avessi preso quel sole, probabilmente avrei intascato la cima in poco piú di tre ore [139-142].

Pazienza, è tutto rinviato alle 4 di notte. L'incognita non manca, ed è il vento. Alla partenza non dà fastidio, ma sopra rinforza, e il freddo si acuisce alquanto. La teoria che ci avevano insegnato diceva che il vento di notte si calma, ma non sempre la pratica è conforme alla teoria, e piú volte nei giorni passati al pueblo abbiamo sentito di rinunce sul Sajama causa vento e freddo al campo alto.

Saluto con piacere il sorgere del sole sul campo di penitentes [143-145]; col sole non si sta mai troppo male. Dopo non molto sono sul bordo del cratere. Essendo per la prima volta sopra una cima di 6000 metri, la prima domanda che mi faccio è se sto bene. Leggendo libri e racconti vari, infatti, mi ero fatto l'idea che a queste quote si dovesse per forza arrivare stravolti e stremati e assetati e boccheggianti, e in definitiva animati solo da irrefrenabile voglia di scendere. Siccome non mi pare di ravvisare nessuna di queste infauste sensazioni, decido di concedermi, nell'attesa che arrivino i compagni, un giro completo del cratere. Ne esce una gradevolissima passeggiata che, affrontata con andatura turistica e con le opportune soste fotografiche, mi tiene occupato per due ore [146-149]. Non sono certo ore sprecate. Mi affaccio sul lato cileno, dove spicca il il Lago Chungarà (formatosi per sbarramento a seguito di un'eruzione del Parinacota risalente a 8000 anni fa), accompagnato da altre lagune minori. Durante questo periplo il vento, che all'arrivo in cima mi aveva consigliato di muovermi a quattro zampe, si è placato quasi del tutto. Ma non c'è tempo per godersi questa tregua: i compagni nel frattempo sono arrivati in cima, e ora stanno scendendo il campo di penitentes. La cosa migliore è raggiungerli e andare a smontare le tende.

Il giorno seguente riesco finalmente ad affittare una bici - non già da Andres, bensí dalla concorrenza. Il giro inizia raggiungendo alcuni compagni alle sorgenti termali. Qui si può fare il bagno in acqua calda o tiepida a seconda della scelta della pozza, mentre poco piú in là i lama si bagnano nell'acqua delle bofedales, le paludi poco profonde punteggiate da ciuffi di vegetazione, e qui luccicanti di ghiaccio fino a pomeriggio avanzato [150-151].

Terminati gli ozi termali proseguo lungo la strada che attraversa il parco passando presso la laguna Huayna Chota [152-153]. Detto per inciso, ci vuole un po' di tempo per adattarsi alla fatica di pedalare a 4000 metri, molto maggiore di quella di camminare a 6000. Raggiungo Tomarapi, il minuscolo pueblo all'altra estremità del parco, addormentato in un'atmosfera irreale [154-155]. Nasce il desiderio di tornare su queste piste per effettuare il giro ad anello (100 km circa) attorno al Sajama. I giorni ormai però sono contati. L'unica maniera per liberarne uno è tentare di salire la montagna direttamente dal campo base, saltando il campo alto. Paradossalmente, appena formulata l'idea, compio anche l'errore destinato a farla naufragare. Indugiando a fare foto presso la Laguna Huayna Chota [156-160], lascio che il tramonto mi colga per strada [161-162]. Come già detto, tramonto vuol dire freddo istantaneo, di quello che non sarebbe il caso di prendere in bici e senza adeguati vestiti. Un errore che pagherò caro.

3.6. Sajama (6542 m)

«El Sajama es el trono sublime». Cosí sta scritto sopra un masso lungo il sentiero per il campo base [163]. Questo vulcano abbondantemente eroso, alto 6542 metri, supera di almeno 100 metri ogni altra cima della Bolivia e domina la catena delle Ande per un tratto di quasi 2000 km, fra lo Yerupaja, nella Cordillera Huayhuash, in Perú, e il Llullaillaco, nella Puna de Atacama, in Cile.

Parte dunque la nostra carovana [164-166]. Un libro che ho nello zaino (The Andes - a guide for climbers) fa notare che la «foresta» di queñua che c'è attorno è «la piú alta del mondo», poi però aggiunge che in realtà le sequoie della California sono piú alte. Qui bisogna precisare due cose. Primo, le piante di queñua non sono che miseri arbusti, cosicché «alto» si riferisce al fatto che alcuni lembi di tale «foresta» si spingono oltre i 5000. Secondo e forse piú importante: l'autore (John Biggar) è scozzese, e quindi quello che sta facendo è dello humour britannico.

Camminando avanti alla nutrita comitiva riesco a fotografare un branco di vicuñas [167], una delle quattro specie di camelidi andini. Oltre alle due addomesticabili, il lama e l'alpaca, ve ne sono due selvatiche, la vicuña appunto, e il guanaco. Salgo oltre la spianata del campo base per una ricognizione. A sera la comitiva è insediata [168-169].

Alle tre di notte scivolo fuori dalla tenda per attuare in solitaria il mio proposito di salita in giornata. Mi accompagnano la minuta trapuntura del cielo australe, e la compostezza quasi classica della sagoma scura della montagna. Con il senso di fragilità che uno sente addosso alle tre di notte, non sono le compagnie giuste; la loro perfezione mi opprime. Guadagnando quota trovo una compagnia migliore: è un'incerta fiammella che appare e scompare di tanto in tanto all'orizzonte, tremolando quasi timorosa; probabilmente appartiene a qualche vulcano in lontananza. Dopo due ore di cammino mi trovo sul crinale sotto il campo avanzato. Purtroppo il vento fresco che si sta alzando mi fa capire quanto penoso sia lo stato della mia gola. Con l'aria asciutta, rarefatta e sabbiosa in questi luoghi secchezza di fauci e irritazione di gola non fanno notizia, cosicché nell'ombra possono crescere indisturbati malanni piú seri. Prendo l'unica decisione ragionevole, ed è ancora buio quando scivolo nuovamente dentro la tenda del campo base, dove c'è l'unico oggetto importante per me in questo momento: la scatoletta dell'antibiotico.

La nuova giornata inizia con un bel tiro del nostro cocinero Andres: una salutare colazione all'aperto con -14. Il sole sta scendendo a grandi passi il fianco della montagna, e basterebbe attendere un'ora per trovarsi in maglietta, ma non sempre i pensieri dei boliviani sono in conformità con i nostri pensieri. Passata questa, si fa giornata con due ore e mezzo di salita al campo alto, posto poco sotto i 5700 metri. Seduto su uno dei magri spiazzi che ospiteranno le tende guardo arrivare i portatori. Fa un certo effetto vedere il proprio zaino da 20 kg muoversi lungo i tornanti del sentiero con sotto un altra persona, specie se si tratta di un ragazzo ingaggiato per pochi bolivianos.

Tiriamo sera [170] leggendo oppure confabulando con le nostre guide. Ci chiedono di vedere el equipo, ossia l'attrezzatura: un po' per non avere sorprese stanotte, ma anche per annusare se nel dopo-salita si potrà fare qualche commercio. I miei scarponi ad esempio riscuotono simpatia per il loro nome, Evo. Stavolta riusciamo a convincere il cocinero a servirci la cena prima che il sole cali dietro il vicino spuntone. Il tramonto ci distrae dalla pena dei monoblocchi di pastone che ingoiamo.

La sveglia è all'una e mezzo. Dentro le tende fa -14. Siamo fortunati: fuori non c'è un filo di vento. Sui primi tornanti la mia frontale incrocia un compagno che scende: deve rinunciare perché ha vomitato. Il pastone di ieri ha mietuto vittime. Un primo ripido tratto di sfasciumi adduce alla chiacchierata "canaleta": "de hielo" nei conciliaboli del pueblo, di neve innocua e sfasciumi nella realtà. Segue un tratto di roccette che adduce alla cupola sommitale. Questa comincia con un ripido pendio di penitentes; il passaggio è piú corto che sul Parinacota, ma qui le formazioni sono piú fitte e soprattutto sono di ghiaccio vivo. Il finale invece è su comoda neve dura, fra grandi crepacci, alcuni curiosamente disposti lungo la massima pendenza. La cima [171] consiste di un grande pianoro, solo vagamente bombato, sul quale nel 2001 fu anche disputata una partita di calcio:
http://www.geocities.com/zubietaippa/sajamasoccer.html

Il mio umore non è certo quello adeguato al momento. Purtroppo non sono abituato a salire legato come un salame, con un'andatura tanto diversa dalla mia, e mi rendo conto di aver avuto molta piú soddisfazione dal Parinacota e dal Tunupa che non dal Sajama, che pure era il clou designato di tutta l'avventura. D'altronde, raramente le avventure escono come le si era progettate a tavolino. Ma non c'è da strapparsi i capelli per questo: ci pensa poi il ricordo a filtrare e ridimensionare gli umori talvolta balzani dei singoli momenti.

Arriva l'ora dell'ultima cena a Pueblo Sajama. Per l'ultima volta tramonto sui vulcani, vestizione contro il subitaneo gelo che scende, arroz con papas y huevos, «escucha mi corazón, escucha su dolor», termos di mate. Adesso torneremo alla civiltà e a una doccia calda. Viviamo in pieno quello che si potrebbe chiamare il paradosso del viaggiatore: sentirsi sollevati nel lasciare un luogo, e allo stesso tempo già sapere quanto la nostalgia di quello ci tormenterà.

3.7. Ritorno

L'asfalto ci riporta a La Paz, dove ora tutto ci appare come lusso, a cominciare dall'albergo e dalla cena da Ángelo Colonial [178]. Il giorno dopo ci sono varie faccende da sbrigare e cosí rientriamo appieno nel clima della città-mercato.

Si ha l'illusione che, dietro l'apparente frenesia, La Paz sia in realtà un luogo tranquillo. Le cose non stanno proprio cosí, né lo sono mai state. La storia della città e piú in generale della Bolivia è costellata di sommosse e colpi di stato, oltre alle guerre che il paese ha sistematicamente perso fino a venir privato dello sbocco sul mare. A Plaza Murillo [181] la statua che si vede davanti al palazzo del Governo è quella di un presidente impiccato dalla folla - e guarda caso, lo stesso dedicatario della piazza era uno a sua volta impiccato. Né la vita è piú tranquilla al giorno d'oggi, come mostra questo foglio [182].

L'aereo per Santiago ci fa rivedere i nostri vulcani [192-193], indi ci offre una bella panoramica su tutta la catena andina, via via maggiormente spolverata di neve mentre si procede verso sud. Sorvolando la stretta lista di territorio che costituisce il Cile, e il particolare il Deserto di Atacama, arriviamo in vista di Santiago. "Los Andes" propongono qui i loro ultimi, grandi sussulti: il Cerro Mercedario [194], che recenti rilievi della NASA declassano da 6770 a 6700 metri, facendogli perdere diverse posizioni nella top ten della Cordillera [], e il Cerro Aconcagua, 6959 m [195], che sembra invece resistere ai concorrenti che via via ne insidiano il primato: in tempi recenti l'Ojos del Salado, col quale la differenza di quota dovrebbe comunque essere minima, ma ancora negli anni Settanta una fonte del calibro del Times Atlas attribuiva 7014 metri all'Ancohuma (uno dei litiganti della Bolivia: vedi sopra), che ora è quotato 6427 metri!

Altre speculazioni tuttavia occupano la nostra mente. Il Cile mette infatti in palio 20mila dollari di multa per chiunque importi latticini senza autorizzazione; ragion per cui ci ritroviamo in piú d'uno a scendere dall'aereo con in bocca un pezzo di formaggio da far scomparire. Nel mio caso, si tratta dell'ultimo di dieci tagli di grana trentino che avevo portato per facilitare la sopravvivenza - non immaginando che i maggiori problemi di sopravvivenza li avrebbero avuti proprio loro. Fin dalla dogana peruviana, infatti, avevano passato - insieme al grosso salame che li accompagnava - momenti molto travagliati.

Durante il lungo volo di ritorno sfoglio il libro «Bolivia - entre pueblos y montañas» di Alain Mesili, un francese che ha praticamente monopolizzato la letteratura sulle Ande boliviane (assieme all'inglese Yossi Brain, autore per parte sua di «Bolivia, a climbing guide»). Vi trovo preziose informazioni di storia alpinistica. Apprendo che il Parinacota fu scalato per la prima volta nel 1928 dall'austriaco Joseph Prem, assieme al boliviano Carlos Terán. Lo stesso Prem aveva compiuto il primo tentativo al Sajama nel 1927, arrivando a 6200 metri. Nel 1931 con un altro austriaco era arrivato a 6400. Raggiunse la cima al terzo tentativo, fatto assieme al nostro Piero Ghiglione: il pioniere dello scialpinismo alle alte quote, che sul Golden Throne in Karakorum si era servito degli sci fin oltre i 7000 metri. La salita fu fatta il 26 agosto 1939, cosicché la nostra cade a distanza di 70 anni meno un giorno!

Arrivo a casa la sera del 29 agosto, a due mesi (meno un giorno) dalla sera della corsa in agenzia. Detto per inciso, pare che poi le meduse in Sardegna non ci siano mai arrivate.
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jj6 Rispondi citando



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MessaggioInviato: Mar Set 22, 2009 11:22    Oggetto:
 
Shocked Shocked Shocked

Alberto,
stupendi posti, racconti, foto....

al Trincher mi DEVI dare la foto sulla Bolivia nr: 98 e 121...
(nel 1996 non c'era ancora la digitale.. solo dia..)

ma, racconta... almeno una sbornia di "chicha" e 'na masticada de hojas te le sei fatte???... Wink
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E allora... MOLLALI !!!!!! CARLO
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casmau Rispondi citando



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MessaggioInviato: Mar Set 22, 2009 17:35    Oggetto:
 
per il momento ho letto il viaggio in Grecia, paese che amo molto, grande viaggio e raccontato bene sia in immagini che in scrittura.

Grazie perchè deve essere stato un bell'impegno a proporcelo qui. Wink

oggi leggo questo
http://www.montagna.tv/?q=node/11001
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http://scianarchik.blogspot.com/

http://vimeo.com/87710861

Di colpo tutta la mia facoltà di pensare si spegne.
Che sensazione piacevole! Ho forse dormito?
No sto facendo una gita con gli sci
H. Buhl
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ape277 Rispondi citando



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MessaggioInviato: Mar Set 22, 2009 18:27    Oggetto:
 
casmau ha scritto:
ma, racconta... almeno una sbornia di "chicha" e 'na masticada de hojas te le sei fatte???...


Se frughi bene fra i paragrafi c'è qualche riferimento...
Il tutto con estrema moderazione, ovviamente.
Diciamo pure cum grano salis, quando non con un bel salar.

casmau ha scritto:
Grazie perchè deve essere stato un bell'impegno a proporcelo qui. Wink

oggi leggo questo
http://www.montagna.tv/?q=node/11001


Ho visto il tuo appello a non mollare...
Quanto a quest'altro, mi pare chiaro che punta alla distanza Terra-Luna.
Effettivamente Terra-Sole in bici è un po' fuori dalla portata. Rolling Eyes
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clark Rispondi citando



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Luogo di residenza: Vicenza

MessaggioInviato: Mer Set 23, 2009 21:52    Oggetto:
 
Non ci si annoia certo a scorrere le tue foto: sono una più bella dell'altra! Surprised
Bravo anche per il coraggio che hai nell'affrontare posti lontani e sconosciuti, tra l'altro spesso in solitaria. Mitico! Very Happy
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Selig Rispondi citando



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Luogo di residenza: Trento

MessaggioInviato: Gio Set 24, 2009 11:41    Oggetto:
 
Caro Ape,
è la prima volta che devo stampare un topic per leggerlo tutto...
e se chiedessimo all'amministratore di inserire l'icona della stampa sui tuoi report???? Razz
Scherzi a parte, leggerò tutto con molto interesse: sono racconti che mi intrigano molto...
Per ora complimenti per la tue estati molto movimentate! Wink
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ape277 Rispondi citando



Registrato: 04/09/06 11:38
Messaggi: 526
Luogo di residenza: Marter Valsugana (TN)

MessaggioInviato: Gio Set 24, 2009 14:28    Oggetto:
 
clark ha scritto:
Non ci si annoia certo a scorrere le tue foto: sono una più bella dell'altra! Surprised

Se già chiami belle le mie, allora nel caso della Bolivia puoi considerare le foto di questo signore
http://picasaweb.google.it/edomar2611
Diverso il caso della Grecia, perché lì di alcuni posti non trovi alternative in rete...

Su tutt'altro fronte, un altro link molto istruttivo per la Bolivia - mi sono dimenticato di inserirlo - è il seguente:
http://archiviostorico.corriere.it/2009/febbraio/08/Auto_elettrica_Bollore_Mitsubishi_caccia_co_9_090208054.shtml

Selig ha scritto:
Scherzi a parte, leggerò tutto con molto interesse

Buona fortuna.
Tieni presente che a me ci sono volute quattro ore di collegio dei docenti solo per rileggere - dopo tre giorni di pioggia impiegati a scrivere, ma quelli a te sono risparmiati...
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Valentino_52 Rispondi citando



Registrato: 21/02/06 09:49
Messaggi: 7323
Luogo di residenza: TRENTO

MessaggioInviato: Gio Set 24, 2009 17:46    Oggetto:
 
Selig ha scritto:
Caro Ape,
è la prima volta che devo stampare un topic per leggerlo tutto...


L'ho fatto anch'io Wink
22 pagine di word che mi leggerò con calma forse stasera dopo cena. Wink
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ape277 Rispondi citando



Registrato: 04/09/06 11:38
Messaggi: 526
Luogo di residenza: Marter Valsugana (TN)

MessaggioInviato: Gio Set 24, 2009 18:12    Oggetto:
 
Valentino_52 ha scritto:
L'ho fatto anch'io Wink
22 pagine di word che mi leggerò con calma forse stasera dopo cena. Wink

Comprensibile: vedendo il titolo sugli Orsi, hai deciso di controllare cosa combina la concorrenza Rolling Eyes .
Comunque Word fa preferenze Sad : a me di pagine da rileggere ne ha sfornate 23...
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frìfrì Rispondi citando



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MessaggioInviato: Gio Set 24, 2009 21:19    Oggetto:
 
Per adesso complimenti per il grande viaggio e per le foto (gli ho dato una veloce guardata), il resto che ho appena stampato lo leggerò con calma.
Grazie Wink
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